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Che cos'è la maschera?|II ceppi mitico rituali della maschera folklorica europea

Messico
 


 
La caccia selvaggia

 
 

I riti mascherati del folclore Europeo, dal carnevale allo charivari, dalle mascherate nuziali alle uscite dell’orso, sono nella pressoché totalità dedicati alla propiziazione della fertilità della terra e della fecondità umana. Maschere spesso zoomorfe, dai tratti ferini ed inferici, a significare (e a sperimentare nella performance rituale) la potenza rigeneratrice del riso, del rovesciamento parodico del reale, in ultima istanza delle forze liberate della natura e dei revenants, i morti che ritornano. Maschera fra le maschere, declinato fra un’infinità di denominazioni e di varianti, il selvaggio è il dominatore della scena rituale. Quanto all’origine di tale figura, le congetture potrebbero portarci, date certe somiglianze “di famiglia”, a retrocedere più o meno indefinitamente verso tempi sempre più remoti. Rinunciando a individuare un mito “di fondazione” possiamo tuttavia tentare di delineare un ceppo mitico particolare, che a partire da probabili radici celtiche si è perpetrato, rifunzionalizzato, in epoca medievale.
Al posto di Wotan-Odino, che secondo la leggenda procede nelle notti tempestose alla testa di uno stuolo di spiriti, nel Medioevo il condottiero dell’esercito dei morti è soprattutto Hellequin (le varianti onomastiche sono davvero molte: Harila-King Herlequin, Hèletchien, Hennequin, Hannequin, Arnequin, Erquine), personaggio che per inciso all’alba della modernità darà il nome alla maschera teatrale di Arlecchino. I documenti attestano racconti popolari che parlano di cortei notturni, di apparizioni fantastiche, di processioni di spettri, per lo più localizzate nella foresta o in luoghi di confine. Gli studiosi sono concordi nel riconoscere in queste narrazioni un chiaro riferimento al mito della “caccia selvaggia”, diffuso in Italia soprattutto nelle regioni alpine. Abitatore della selva, il cacciatore selvaggio non solo è a contatto diretto con gli spiriti inferi, vive con tutte le creature che la popolano, conosce tutti i segreti della natura con cui è in piena simbiosi fino ad assumerne essenziali attributi, zoomorfi e financo vegetali. Per il contadino medievale, che vive in modo stanziale coltivando la terra, il “selvaggio” è un figura dell’alterità, dedito alla caccia e al nomadismo: cosicché, per contiguità, figure reali quali quella del cacciatore professionista, del carbonaio o del pastore finirono nell’immaginario popolare ad assumere caratteri in parte similari.

   
Coppia di Selvaggi, XV secolo, Chiesa di S.Martino, Ambierle (Loire).
           
                 
  Coppia di Selvaggi, XV secolo, Chiesa di S.Martino, Ambierle (Loire).  

 

La Danza selvaggia

Se il “selvaggio” ha una compagna, questa è la “donna selvaggia”, talvolta raffigurata con una lunga capigliatura che ne ricopre quasi interamente il corpo nudo. Ma la selva brulica di altre figure misteriose, dotate di poteri magici: gnomi, elfi, e, al femminile, ninfe, fate e soprattutto streghe, donne raccoglitrici, dedite alla magia, che frequentano sistematicamente la selva alla ricerca delle erbe da impiegare nella loro funzione di guaritrici.

Se la natura maschile del selvaggio ne fa soprattutto un guerriero e un cacciatore, la natura femminile si esprime anche attraverso la seducente e sensuale pratica della danza: e in proposito è utile ricordare che fra le divinità al cui seguito le streghe (sotto interrogatorio nei processi dell’inquisizione) confessavano di radunarsi in occasione del “sabba”, oltre a denominazioni come Bensozia, Abundia, Satia, Perchta, Holda, figure senz’altro attribuibili alla tradizione folclorica, spesso veniva citata Erodiade o (per sovrapposizione con la dea greca della caccia e delle selve), Erodiana. Wesselofsky, rifacendosi alle innumerevoli leggende popolari sul castigo inferto da Dio alla figlia di Erode, leggende secondo cui Erodiade fu condannata a danzare ogni notte per aver preteso dal padre la testa di Giovanni Battista, ritenne di poter scorgere un nesso fra Herdekîn, diminutivo di Herodes nei dialetti basso-tedeschi (da cui Herlequîn, Hellekîn, Hellequin) e per l’appunto Erodiade, per declinazione del nome della madre istigatrice, Herodias; una singolare interpretatio vulgaris del dettato biblico, che nell’eterna danza della fanciulla non vede il nucleo del peccato, ma piuttosto il risarcimento forzato, in funzione della fertilità, per il male compiuto. Va del resto precisato che nella coscienza delle inquisite il teorema degli inquisitori, il sabba, per molto tempo non fu neppure compreso: per quelle muliercule illetterate, quei convegni notturni, quelle danze estatiche, erano sì condotte da divinità notturne, ma sempre in funzione della prosperità.

Danza di Salomè. Bible moralisée, miniatura, XIII secolo, British Library, London.

Danza di Salomè. Bible moralisée, miniatura, XIII secolo, British Library, London.

 

         
  Danza acrobatica di Erodiade. Portale in bronzo (particolare), XII secolo, Basilica di San Zeno, Verona.   Danza acrobatica di Erodiade. Portale in bronzo (particolare), XII secolo, Basilica di San Zeno, Verona.  

 

 
Bibliografia

 
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di Margherita Amateis